Dell’attività ritrattistica di Antonio Gai possediamo un esempio al Museo Correr di Venezia nel busto in marmo di Carrara del doge Bartolomeo Gradenigo. L’opera è stata donata ai Musei Civici Veneziani nel 1921 per legato di Giambattista Venier, ed era originariamente appoggiata a un sostegno in legno, oggi mancante.
Guido Lorenzetti nell’edizione del 1926 della sua guida Venezia e il suo estuario, colloca il busto all’interno della «[…] Saletta dei ritratti dei dogi», attribuendolo allo scultore «[…] A. Gai del XVIII secolo»; uguale attribuzione la leggiamo nella guida del Museo Correr del 1938, senza però alcun cenno alla firma dell’autore chiaramente leggibile nella parte sinistra del piedestallo. Non la ricorda il vecchio elenco del 1899, dato che la scultura giunse ai Musei Civici ventidue anni dopo.
Le notizie relative ai ritratti di questo scultore, nato a Venezia il 3 maggio 1686 e morto nella sua casa veneziana di San Bartolomeo il 4 giugno 1769, sono discordanti e, nella maggior parte dei casi, carenti di documentazione; pur tuttavia, il manoscritto di Tommaso Temanza, elemento basilare per la ricostruzione del corpus delle opere di Antonio Gai, accenna a un unico esempio di ‘ritratto’, il busto del cardinale Querini nella “Basia” di Busche, oggi disperso.
Vi è ancora confusione sulla paternità degli altri ‘ritratti’, alternativamente attribuiti ad Antonio e al figlio Giovanni dagli storici dell’arte. A esempio, sono stati recuperati allo scarno catalogo di Giovanni – allo scalpello del quale con certezza sono stati ricondotti il busto di Teofilo Folengo nella chiesa parrocchiale di Campese e il San Giovanni Battista sull’altare della chiesetta privata di ca’ Rezzonico a Bassano ¬– i busti del doge Niccolò Sagredo e del patriarca Alvise Sagredo a San Francesco della Vigna, ritenuti però opere di Antonio dalla Casanova (L. Casanova, 1957). Ugualmente, per il busto di Bartolomeo Gradenigo la Casanova vi riconosce lo stile di Antonio Gai per le analogie con le portelle bronzee di accesso alla loggetta di Jacopo Sansovino a San Marco, mentre Semenzato (C. Semenzato, 1966) lo espunge dal suo catalogo. Scrive la Casanova a tal proposito: «Nella composizione del doge, quasi vittoriesca, ritroviamo alcuni elementi cari al Gai, il tocco morbido, la cura gentile del particolare, la trasparenza della cuffia, il muoversi pastoso del manto […].